di Simona Ciaramitaro
L’economista Fabrizio Barca commenta l’allarme lanciato da Bankitalia e avanza proposte per uscire da un circolo vizioso potenziando scuola e università e dando la possibilità alle nuove generazioni di esplicare le loro potenzialità innovatrici anche al’interno di una Pubblica amministrazione che deve essere ben rinnovata.
L’aumento delle disuguaglianze nelle conclusioni della Relazione annuale di Bankitalia è un tema e un allarme che da tempo lanciano associazioni e sindacati avanzando anche proposte per andare a ridurre quella che non esitiamo a definire una piaga per il nostro Paese. Tra queste associazioni il Forum Disuguaglianze Diversità, che vede tra i suoi fondatori Fabrizio Barca, economista e già ministro per la Coesione sociale.
Fabrizio Barca, anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, punta il dito su un rischio che si è fortemente accentuato a causa della pandemia: quali sono le possibilità che l’allarme non cada ancora una volta nel vuoto?
L’attenzione della Banca d’Italia è quella di un’istituzione pubblica che da 50 anni porta avanti indagini sulla distribuzione del reddito e la storia del Paese ci dice che quando le cose sono eclatanti vanno misurate e dette. Il riferimento del governatore Visco è stato soprattutto alle disuguaglianze di reddito e alla grande fascia di popolazione che non ha i mezzi per reagire a questa crisi, con forte attenzione ai provvedimenti di tutela sociale assunti. C’è una sottolineatura alla necessità di una riforma di welfare e fisco, con una “ricomposizione del carico fiscale a beneficio dei fattori produttivi”, vale a dire di chi produce. E l’espressione “produttori” fa capolino anche dietro il riferimento di Bankitalia al dialogo costruttivo tra forze sociali, coloro che producono devono fare fronte assieme.
Non siamo, in fondo, di fronte a vecchie logiche?
Non c’è una sola disuguaglianza che sia nuova, la crisi ha reso eclatante e ha fatto pesare sulla testa delle persone quello che già c’era: un mercato del lavoro dove ci sono 6/7 milioni di precari, il che ci restituisce ancora la gravità degli errori commessi nel ventennio passato. Le disuguaglianze che si sono rivelate in questa circostanza (pensiamo al digital device che ha impedisce che la totalità dei giovani possa seguire le lezioni a distanza e agli anziani di essere curati attraverso la telemedicina) c’erano da prima e il Forum, come altri che ci lavorano da prima, le conoscono da tempo. Queste disuguaglianze sono al centro anche di una recentissima nostra pubblicazione (Un futuro più giusto, F. Barca e P. Longo, ed. Il Mulino, ndr), nella quale usiamo, nel sottotitolo, espressioni significative come “rabbia” e “conflitto”. Un confronto acceso, il conflitto, è l’anima della democrazia, non è una cosa brutta, ma l’importante è la consapevolezza che questa enorme quantità di risorse finanziarie che Bankitalia enumera non vengano reimmesse attraverso gli stessi modi impropri, attraverso i grandi piani lontani dalle persone, come accaduto nel passato, altrimenti non risaniamo le disuguaglianze. Nelle ultime parole di Visco si dice di usare il progresso tecnologico per uno sviluppo più equo e sostenibile: questi sono requisiti ai quali deve essere destinata la spesa e noi facciamo proposte che riguardano il come spendere e non il fatto di spendere e basta.
Come lei diceva, sulla copertina del libro compare la parola rabbia: in un Paese che non ha vocazione rivoluzionaria quale strada può prendere questo sentimento?
Ci sono tre scenari possibili. Il primo è che la rabbia rimanga tale e la somma di tante rabbie individuali determina autoritarismo, perché ognuno è solo e in questa solitudine cerca l’autorità, anche a costo di perdita della libertà, per affidarsi a chi decide, sanziona e dà ordini. La seconda è la rabbia soffusa, nascosta, attutita dai soldi: spendere tanti soldi male vuole dire comprarsi il silenzio sociale, vuole dire che sotto la cenere la rabbia rimane, posponendo il momento in cui i problemi scoppieranno. Questo scenario è coltivato da molti. Il terzo è lo scenario democratico, quello nel quale la rabbia diventa azione collettiva, non rivoluzione, ma mobilitazione sociale organizzata, come dicono gli studiosi. Quando come Forum DD abbiamo proposto il Reddito d’emergenza, nessuno lo voleva perché nessuno desiderava neanche parlare degli irregolari e dei lavoratori a tempo determinato: noi abbiamo fatto un po’ di movimento, ma ci vuole molto di più per cambiare, per andare nella direzione che ci auguriamo. In questo caso la rabbia delle persone diventa spinta a cambiare, diventa serena, da cupa diventa solare, da destruens a costruens, da individuale a collettiva. Questi i tre scenari.
Quali sono le vostre proposte per ridurre le disuguaglianze?
Nel libro ne enumeriamo cinque, ma ne voglio citare due che ho ritrovato anche nella relazione di Visco. La prima riguarda la conoscenza, perché, quando sei stroncato, ogni singola persona deve dare fondo alla propria creatività, bisogna innovare e per farlo è necessario connettersi ai centri di conoscenza, alle università che, insieme alla scuola, ha un potenziale fortissimo. Noi spendiamo poco per l’università, ma nonostante ciò i risultati della ricerca sono alti. Possiamo usare di più l’università per il sistema di piccole e medie imprese, per aumentare la frequenza dei giovani, la consapevolezza della popolazione e quindi ridurre il numero di fake news e di balle che ci raccontano… e in queste settimane ne abbiamo sentite tante, soprattutto sulla salute. La seconda proposta riguarda i giovani. Noi siamo un Paese che ha una crisi generazionale micidiale, che si manifesta in modo eclatante nei bassi salari in di entrata, nei tassi di istruzione tra i più bassi in Europa, nel posponimento delle decisioni di vita, nella bassa fertilità, quindi nel basso numero di giovani e così il circolo vizioso ricomincia. La rottura di questo cerchio passa dalla conoscenza, ma anche da un altro fattore: ai giovani dobbiamo dare potere e ora abbiamo un’opportunità straordinaria, perché l’amministrazione pubblica si trova di fronte a una ricambio generazionale (chi è entrato negli anni ’70 sta uscendo dalla P.a.), abbiamo 5-600 mila giovani in entrata e a loro dobbiamo dare molto peso senza fare passare alla chetichella un fatto storico. Se curiamo la selezione, le competenze, l’entrata (sino a ora la pubblica amministrazione ha mandato i giovani allo sbaraglio) dando la tranquillità e la certezza di avere la possibilità prendere decisioni, di non essere assunti per fare invece i passacarte, noi stiamo facendo verso i trentenni un trasferimento di potere. Infine è necessario, attraverso una diversa tassazione delle donazioni e delle eredità, che anche il 50% delle famiglie italiane che non ha la possibilità di fare studiare i figli, se non vicino casa, possano invece avere il denaro sufficiente per garantire tutta la formazione necessaria, così che nessuna buona testa sia ammazzata.
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