Smettete di macinare, o donne che lavorate al mulino; dormite sino a tardi, anche se il canto del gallo annuncia l’alba. Poiché Demetrio ha ordinato alte ninfe di eseguire il lavoro che facevate con le vostre mani, ed esse, saltando giù dalla sommità della ruota, fanno girare l’assale che, con le sue razze rotanti, fa girare le pesanti macine concave di Nisiria.

(Antipatro di Tessalonica. I sec. a.C.).


Quasi sicuramente questa è la prima testimonianza letteraria dell’utilizzo della ruota idraulica in un mulino nell’antica Grecia. Le ninfe sono un chiaro riferimento alle acque, che con la propria caduta facevano muovere la ruota palmata e le pesanti macine di granito. I mulini idraulici affiancarono l’uomo in attività che spaziavano in vari campi, tra queste nel gravoso compito di macinare il grano, attività faticosa, sempre ricorrente in ogni famiglia del passato, che costituì un incentivo particolarmente forte a meccanizzare e a migliorare il mulino. In ogni epoca storica molti fattori, come: i materiali disponibili, l’abilità e l’esperienza degli artigiani, le condizioni economiche e sociali, le credenze religiose o le leggi etiche, e perfino le dottrine filosofiche, contribuiscono a determinare la natura della tecnologia. In ogni fase gli artigiani padroneggiano l’uso di certi utensili e di certe macchine, per le varie operazioni necessarie a trasformare le materie prime in prodotti finiti. Utensili come il martello e lo scalpello o la macina rotante sono talvolta denominati “agenti diretti”, per distinguerli dai motori primari, i quali sono macchine che forniscono la forza motrice per altri dispositivi o altri utensili. I motori primari, che trasformano l’energia muscolare animale o l’energia dell’acqua corrente, del vento o del calore in una forma conveniente di energia meccanica, danno la misura della capacità dell’uomo a imbrigliare le forze della natura.

L’introduzione di un nuovo motore primario rende generalmente disponibile l’energia in forma più concentrata e consente un nuovo livello di produzione. Una prima fase è di solito contraddistinta dall’utilizzo di piccole “macchine” in legno o in pietra, che per le dimensioni ridotte erano presenti in ogni casa. Ci si riferisce ai pestelli e mortai che furono utilizzati sino a pochi decenni fa anche nelle nostre case per ridurre in polvere sale, mais, etc. A questi vanno affiancati i “mulinelli”, veri e propri mulini in miniatura, costituiti da due piccole macine dal diametro di circa 30-40 cm, sovrapposte ed azionate a mano. In antichità da questa piccola “macchina” si passò ad altre più grandi mosse da animali di cui un tipico esempio è dato dal mulino “pompeiano”.

Le ruote idrauliche sono macchine destinate a convertire in energia cinetica di rotazione, quindi utilizzabile come lavoro utile di un albero motore, l’energia che l’acqua mette a disposizione. Dal momento della loro invenzione e maggiormente all’inizio del medio evo, quando gli “ingegneri” del tempo si cimentarono ad apportare miglioramenti, e fino all’introduzione della macchina a vapore, la ruota idraulica, costituì la base dello sviluppo economico “industriale” e produttivo di tutto il mondo occidentale, e per molto tempo mantenne un ruolo primario anche dopo la rivoluzione industriale. L’uso che della ruota idraulica si fece nel corso dei secoli fu molto vario. Dalla sua prima applicazione, quella di molare il frumento, si passa ad applicare la ruota idraulica per metter in moto seghe idrauliche, per azionare i mantici nelle fucine e nelle ferriere, per i frantoi, nei così detti “molini per il ferro” utilizzati per frantumare il minerale, etc. A seconda dell’uso, e soprattutto in base alla tipologia delle risorse idriche, le ruote idrauliche si diversificarono ed ebbero diverse forme. Si sono avute quindi: ruote idrauliche orizzontali ad asse verticale; ruote idrauliche verticali ad asse orizzontale; a cassette, colpite dall’acqua al vertice e alle reni, e a palette colpite di fianco e da sotto.

Ruote idrauliche orizzontali

Queste ruote, sono le più antiche conosciute. Esse derivano direttamente dalle macine ad azione animale. Un asse verticale permette loro di azionare direttamente le macine, senza problemi legati ad ingranaggi o giunti, sconosciuti nelle prime fasi. Le antiche mole palmate orizzontali, erano semplici, robuste, in legno e quindi facili da realizzare, ma fornivano potenze molto ridotte (1/2 cv) e quindi con un bassissimo rendimento. L’acqua veniva fatta cadere in una condotta forzata posta a monte della ruota, ed in questa acquistava velocità e pressione grazie ad un restringimento in basso della condotta. Alla fine del suo percorso l’acqua colpiva direttamente la ruota palmata posta orizzontalmente rispetto alle soprastanti macine in pietra. Questo tipo di mulino, “inventato” probabilmente in una regione montana dell’Oriente, espressione certamente di una civiltà agricola progredita, nonostante il basso rendimento si diffuse rapidamente in tutto l’Occidente, grazie tra l’altro alla facilità di costruzione e alla robustezza che ne caratterizzano l’impianto. Il mulino orizzontale, detto pure “Greco” o “Scandinavo”, pur essendo di antichissima concezione, è da ritenersi il precursore dei motori idraulici che si svilupparono nel ‘700 in Europa e di alcune moderne turbine idrauliche in uso nelle centrali idroelettriche di oggi.

Mulino Vitruviano o Romano
Nel I sec. a.C. il mulino subisce una radicale trasformazione. Questa, che si può definire una “rivoluzione” nel campo tecnologico, è attribuita ad un architetto militare Romano di nome Marco Vitruvio Pollione, che trasformò il “vecchio” mulino a ruota orizzontale, modificandolo radicalmente, inserendo ingranaggi ed altri congegni che moltiplicavano la potenza e trasmettevano il moto rotatorio dell’asse della ruota, in questo caso verticale, ad un altro assale posto in verticale il quale agiva direttamente sulle macine. Con questo nuovo mulino si ottenevano potenze comprese tra i 6 e i 40 cv, si otteneva quindi un rendimento nettamente superiore. Esso poteva funzionare in presenza di corsi d’acqua a bassissima caduta, poteva azionare più macine contemporaneamente, attingeva direttamente energia dal corso d’acqua, etc. Rapidamente questo nuovo tipo di mulino si diffuse in lutto l’Impero Romano e contribuì a soddisfare il crescente fabbisogno alimentare della aumentata popolazione in epoca imperiale. Altri fattori che contribuirono alla sua diffusione furono la maggiore disponibilità di terreni da coltivare e, dopo il IV sec d.C., il riconoscimento della religione Cristiana. Tale dottrina infatti propugnava tra l’altro la soppressione della schiavitù, che aveva sempre fornito la manodopera principale e a bassissimo costo utilizzata sino ad allora per il funzionamento delle antiche macchine per la molitura.

L’evoluzione e la diffusione del mulino idraulico diede origine a una nuova classe di artigiani, i molitores o molendarii, mugnai che generalmente costruivano possedevano e/o gestivano il mulino, macinavano il grano e talvolta preparavano il malto o cuocevano il pane. L’importanza che rappresentava il mulino per l’economia del tempo indusse i legislatori ad emanare leggi a difesa degli stessi. I numerosi e ripetuti editti che proibivano ai mugnai di dirottare l’acqua degli acquedotti ai loro mulini indicano l’aumento del loro numero fino al VI secolo. Più tardi le leggi dei Visigoti concernenti la distruzione dei mulini e delle chiuse dichiaravano che “chiunque rovina un mulino, deve riparare il guasto entro 30 giorni; lo stesso dicasi per le docce e i bottacci annessi ai mulini”. In ogni epoca il mulino ha costituito sempre uno strumento di potere, detenuto da chi regge le sorti di un determinato territorio. Questi, rappresentato di volta in volta dal signore di turno, da conventi o chiese, che soli, per concessione regia, potevano avere in possesso i mulini o concederli ai propri sottoposti, esercitava il potere fiscale delegando, direttamente o indirettamente, il mugnaio, che come una longa manus esercita un controllo accurato sulle produzioni agricole esigendo e riscotendo alla fonte le tasse che i contadini dovevano al proprietario del fondo.

Mulini idraulici nella vallata dello Stilaro

In Calabria, nella vallata dello Stilaro, ubicata nella provincia di Reggio Calabria sul confine ionico con la provincia di Catanzaro, insistono i comuni di Bivongi, Pazzano e Stilo. Nelle loro territorio vi sono i resti dei monasteri dei SS Apostoli, di San Giovanni e San Leonzio, risalenti all’anno 1000 d.C., che hanno caratterizzato fortemente, non solo la vita religiosa del comprensorio ma anche la stessa vita economica. È anche a questi ordini religiosi che si deve nel bacino dello Stilaro l’avvio di molte attività economiche (ferriere, miniere, gelsicoltura, allevamenti, ecc..) e tra queste il varo della “politica di possesso” dei molti mulini dell’area. Che se pur “inventati” in epoca ellenistica, ebbero poca o scarsa diffusione nel mondo romano, “grazie” alla possibilità di adibire al gravoso lavoro molitorio una enormità di sciavi messi a disposizione dalle continue conquiste territoriali dei romani. Con l’avvento della cristianità e la conseguente diminuzione della schiavitù, si iniziò a diffondere sempre di più l’utilizzo dell’energia idraulica nel gravoso compito molitorio. Molte le macchine messe a disposizione delle popolazioni che non erano solo dedicate all’agricoltura ma anche ai vari apparati industriali in essere a quel periodo. Nel bacino imbrifero delle Stilaro, posto sul versante Ionico, al confine nord della provincia di R.C., vi sono ancora i resti di oltre 10 mulini, testimonianze tangibili dei circa 30 mulini attivi in quell’area, intorno all’anno 1000 d.C. Questi ci testimoniano, come a fianco di una civiltà mineraria e metallurgica, che ha caratterizzato fortemente per oltre 2000 anni la vallata, vi era anche una importante attività agricola e di trasformazione. La più antica menzione documentaria dei mulini idraulici nella vallata dello Stilaro, risale ad alcuni registri Bizantini e ad alcune donazioni fatte dai Re normanni alla “Grangia” dei SS Apostoli e ad altri conventi del circondario. In particolare, una donazione di Re Ruggero ad Andrea: “…magister Ecclesiae Sancte Mariae Heremitarum…molendinum unum quod fuerat Gannadei et erat in pertinetiis Arsaphiae…”. Ed ancora i Beato Lanuino, discepolo di San Bruno fondatore dei Certosini e della Certosa di Serra, ha la facoltà, sempre in base alla donazione del Re normanno, “ut faceret molendinum in pertinetiis Arsaphiae “. È del 1059, la donazione al monastero di San Lorenzo (uno degli oltre 30 centri religiosi attivi nel comprensorio), di un mulino in località “Panari” (i ruderi sono ancora presenti). Dello stesso anno, una ispezione reale per redimere una controversia, attesta: “…et invenimus molendinum in terra San Leontii, sicut demonstrabat codex ecclesiae”. Nel 1094, Ruggero il Normanno dona ai certosini di San Bruno, terreni, villaggi, e colture, siti nel circondario di Stilo e Bivongi. In particolare il documento così recita “… concedo pro eandem Ecclesia in dotem Domini Patri Brunoni, …molendinis, mineris aeris, ferri, e omnium metallorum”. Nel 1173, Re Guglielmo dona alla Cappella Reale di Arsafia (convento oramai scomparso) un mulino insistente nella località “Severat”. Ed infine, senza citare tutti gli altri documenti, nel 1224, Federico, concede alla Certosa di San Bruno “…il corso libero delle acque per uso dei molini, battandieri…i siti delli stessi, l’uso del ferro, del sale per comodo proprio…”.

La dislocazione dei mulini lungo il corso dello Stilaro e del suo affluente i “Melodare”, era effettuata con grande cura, soprattutto al fine di economizzare l’acqua. Essi venivano costruiti tutti sullo stesso lato del fiume, in alcuni casi attaccati l’uno all’altro, ed erano collegati da una rete di “acquari” al fine di consentire al mulino sottostante di utilizzare la stessa acqua del soprastante. Alcuni di essi, per lo più quelli posti più in alto, erano dotato di un “bottazzo” nel quale si raccoglieva la poca acqua a disposizione nel periodo estivo, per poi utilizzala al momento della molitura, che avveniva quasi in contemporanea in tutti i mulini. I mulini dello Stilaro, come del resto tutti i mulini del tipo “Greco”, hanno la caratteristica “doccia” e presentano almeno due zone contraddistinte: la zona umida della ruota (motore), e quella asciutta delle macine (molitura). In alcuni casi, in presenza di mulini di una certa grandezza, al disopra della camera delle macine si trovava un locale adibito ad abitazione del mugnaio. Le ruote palmate, in antichità erano realizzate in legno, in seguito esse furono sostituite con ruote palmate in ferro, realizzate nelle locali ferriere. La “doccia” (prototipo della condotta forzata delle centrali idroelettriche), veniva realizzata con pietre di granito, come pure di granito erano le macine, la sottostante più grande ferma e la soprastante più leggera rotante. Queste, nelle facce a contatto, presentano delle scanalature, le quali, partendo dal centro verso l’esterno, durante la macinazione, incrociandosi tra di loro provocano la frantumazione del cereale, la cui grossezza veniva determinata grazie ad una puleggia che aveva il compito di aumentare o diminuire la distanza tra le due superfici a contatto. La velocità di rotazione delle macine, veniva regolata, aumentando o diminuendo la superficie di contatto tra l’acqua e la ruota palmata e la forza centrifuga della rotazione espelleva il macinato verso l’esterno delle macine. Le macine, erano racchiuse in una sorta di cassa o in una specie di armadio di legno, che avevano il compito di raccogliere il prodotto una volta macinato. Sopra macine era posta la “tramoggia” che aveva il compito di immettere attraverso un foro ricavato nella macina soprastante il prodotto da macinare. Nella vallata dello Stilaro, come d’altronde in tutti quei territori caratterizzati da corsi d’acqua a carattere torrentizio, il mulino Vitruviano (a ruota verticale), non riesce, per la propria peculiarità tecnico-costruttiva, a diffondersi. Nell’area quindi si trovano esclusivamente mulini appartenenti tipologicamente al tipo “Greco o Scandinavo” (a ruota orizzontale), il solo che poteva garantire la molitura dei cerali e dei minerali con la poca acqua a disposizione. I monaci Cistercensi, coltivatori indefessi di terre desolate e infeconde, si distinsero particolarmente nella diffusione dei mulini idraulici. Nelle loro proprietà in Calabria (i Cistercensi sostituirono, per un lungo periodo, i Certosini nella gestione della Certosa di Serra San Bruno), possedevano, nel tredicesimo secolo, opifici e congegni azionati con la forza idraulica (pestelli, magli, gualchiere, seghe idrauliche, ecc..). Questi monaci, nella vallata dello Stilaro e nelle Serre Calabre, si impegnarono parti­colarmente nella costruzione di forge con magli azionati con l’utilizzo dell’energia idraulica, e furono i pionieri nell’impiego di tale forza nella metallurgia e nella siderurgia, per azionare i mantici e per frantumare i minerali, e tra questi i “mulini per il ferro”.

Questi, uguali in tutto e per tutto a quelli utilizzati per maci­nare il frumento, venivano utilizzati per frantumare il minerale prima che questo fosse introdotto nei forni fusori. Uno di questi, unico esempio del genere in tutta l‘Italia peninsulare, fu costruito, nei pressi di Bivongi, nel lontano 1274. Esso fu ubicato nelle imme­diate vicinanze di un “forno fusore”, già attivo lungo il corso del fiume Stilaro, nella località “Argalia” che con il proprio toponimo sta ad indicare “il luogo dove batteva il maglio”. Il mulino, a quell’epoca, e sino a tutto il XVI sec., veniva utilizzato, per la frantumazione del minerale d’argento, estratto dalla vicina miniera detta appunto “argentera” dalla quale si estraeva la galena (piombo argentifero). Per la presenza di tale mulino, e del vicino forno di fusione, la località sulla quale insisteva, venne denominata appunto, e lo è tuttora, “Mulinu do Furno” (mulino del forno). Attualmente tutti i mulini dello Stilaro hanno da qualche decennio smesso la loro precipua funzione, alcuni di essi insistono ancora nello stesso sito dei loro “progenitori” bizantini. Per quanto riguarda invece i ruderi attuali, essi sono da collocare in un arco di tempo che va dal XVIII al XX sec., in molti di essi si notano reimpieghi di materiale costruttivo proveniente da altri corpi di fabbrica precedenti. La salvaguardia di questi opifici è necessaria ed auspicabile per tutta una serie di argomentazioni di diverso carattere. Tra queste si pone come prioritario quella a carattere morale e didattico, in quanto nel 2000 non è possibile non riconoscere ai mulini, che non erano solamente centri di trasformazione agricola, ma veri e propri luoghi di aggregazione e motori culturali, l’importanza che hanno avuto per la crescita della nostra società. Inoltre, con la loro scomparsa non sarebbe possibile tramandare ai posteri le metodologie e le tecniche produttive del nostro passato e della nostra civiltà.

Danilo FRANCO

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