di Giuseppe Sestito

Prof. Giuseppe Sestito

Trenta anni fa, precisamente nella notte fra l’8 ed il 9 novembre del 1989, i cittadini di Berlino Est dettero l'”assalto” al famigerato Muro, che le Autorità comuniste della DDR (la Repubblica Democratica Tedesca dell’Est) avevano cominciato a costruire, a tappe forzate, a partire dall’alba del 13 agosto 1961, 28 anni prima. Il Muro, alto e spesso alcuni metri, divideva interamente l’ex Capitale tedesca in due parti da un capo all’altro della città. Era sorvegliato per 24 ore al giorno da sentinelle appostate sulle torrette di guardia, disposte a distanza di alcune decine di metri l’una dall’altra.

Ebbri di gioia e pazzi di felicità, i giovani soprattutto ne iniziarono la demolizione facendo ricorso a tutti i mezzi meccanici a loro disposizione. Sotto le sue macerie restò sepolto non solo un regime, ma anche la terza utopistica ideologia che aveva funestato il ‘900: il Comunismo. Le altre due, Fascismo e Nazismo, erano state sepolte qualche decennio prima dalle immense rovine della Seconda Guerra Mondiale.

Avevo visitato Berlino nell’ultima decade di luglio del 1988, l’anno prima che il Muro crollasse. Appoggiato ad esso, dalla parte occidentale, lo avevo lungamente osservato ed a lungo avevo riflettuto sul suo significato: l’ingenua ed insieme folle illusione dei comunisti tedeschi di poter arrestare la brama di libertà che divorava il popolo tedesco dell’Est.

La mia riflessione si era soffermata anche sui numerosi morti; i cittadini tedesco-orientali di cui guardavo attonito le numerose croci bianche piantate là dove avevano lasciato la vita nel tentativo di attraversare il Muro per trasferirsi nella Berlino Occidentale, durante i lunghi e bui ventotto anni che fino ad allora, al momento della mia visita, erano trascorsi. “Chissà quanti ancora ne sarebbero morti”, pensavo, mentre osservavo quella innaturale barriera di cemento piantata nel cuore di una città, di una nazione, di un popolo.

Il Comunismo sovietico, nonostante la Perestrojka e la Glasnost’ di Michael Gorbačëv, sembrava ancora ben saldo, allora. Ed invece, insieme a quello dei paesi satelliti, stava vivendo la fase dell’agonia, divorato dal di dentro dal tarlo di decennali fallimenti politici, economici e sociali e dal truce dominio staliniano. Ma nessuno ne aveva previsto un epilogo così improvviso ed imminente. Viceversa, al primo spirare del vorticoso vento della liberà, che ormai soffiava in e da tutti i Paesi comunisti, a cominciare dalla Polonia di Solidarność, stava sbriciolandosi come un castello di sabbia.

A Berlino, divisa in due zone, Ovest (Occidentale) ed Est (Orientale, comunista), vi avevo soggiornato per oltre una settimana. Vi ero andato in compagnia di mia moglie, Giovanna De Sensi, che giovane docente universitaria ordinaria di Storia Greca – aveva vinto il concorso a cattedra due anni prima – era stata invitata ad un Convegno Internazionale di Storia Antica che si celebrava nella parte occidentale dell’ex capitale tedesca. Vi erano stati invitati e quindi partecipavano studiosi di tutto il mondo.

Nelle soste del Convegno ci era consentito di attraversare, tramite il pagamento di 20 marchi della Germania occidentale a persona, la frontiera ed andavamo nella Berlino Orientale per visitarla. Erano ancora molto evidenti, attraverso i palazzi e gli edifici sventrati dai bombardamenti, le ferite della guerra che ancora non erano state rimarginate. Bellissimo ed imponente, comunque, ci apparve subito il Pergamon Museum che, con i grandi reperti dell’antica Babilonia che contiene, ne fanno uno dei Musei più celebri e visitati del mondo.

Di quella mia visita a Berlino, mai più dimenticata, mi restano alcune fotografie un po’ sbiadite e scattate da me, fotografo dilettante, che qui pubblico e che mi sono carissime. Esse servono infatti ad alimentare la memoria di una esperienza vissuta in modo personale e diretto nel mezzo di un periodo e di eventi destinati a rimanere, nel senso vero della parola, nella Storia.

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