Intervista a Roberto Rossini (Acli)

«In Italia si cercano le scorciatoie, perché nessuno sa più indicare la strada maestra». Uno studio mostra i disallineamenti tra studi e competenze lavorative e tra livello di reddito e status sociale. Il modello dell’economia civile è l’unico che può dare una scossa all’ascensore sociale (che oggi è bloccato).


di Antonella Baccaro

Roberto Rossini

Un modello di sviluppo giusto, che punti sull’istruzione e sulla formazione per dare a ciascuno la possibilità di crescere usando al meglio i propri talenti. Roberto Rossini, presidente nazionale delle Acli, nell’annuale «Incontro nazionale di Studi» che si terrà da giovedì prossimo a Bologna, riproporrà il modello dell’«economia civile» come «l’unico in grado di far ripartire un “ascensore sociale” che sembra bloccato».

Presidente, perché la mobilità sociale non funziona più?
«Da una parte non si fanno più figli: sta venendo a mancare la generazione del futuro, quella che dovrebbe tra l’altro farsi carico del debito pubblico da noi prodotto. Dall’altra, l’economia crolla e il Paese non sembra più in grado di darsi degli obiettivi».

Nello studio che presenterete mostrate un disallineamento tra istruzione e competenze lavorative.
«Lo Stato spende 70 mila euro a studente in 10 anni. Eppure c’è un forte disorientamento nella scelta dei titoli di studio. Scoprire quali siano i talenti di ciascuno dovrebbe essere compito della scuola dell’obbligo».

E poi c’è l’altro disallineamento: quello tra livello di reddito e status sociale.
«Avere un titolo di studio elevato oggi non garantisce di comperare una casa come una volta. Il risultato è che la classe media, come l’abbiamo intesa finora, va assottigliandosi, la frustrazione aumenta e la povertà pure».

Non si può dire che gli ultimi governi non si siano occupati di povertà.
«Quattro governi hanno prodotto tre misure diverse e con l’Alleanza contro la povertà siamo stati protagonisti di questa stagione. Le politiche pubbliche non dovrebbero mutare in continuazione buttando via quello che di buono hanno prodotto».

Cosa non ha funzionato in questi interventi?
«Possiamo dire ciò che funziona in base alla nostra esperienza: dare più soldi al welfare locale e coinvolgere il Terzo settore che ha sensibilità sul territorio».

Il reddito di cittadinanza va cambiato?
«Serve un tagliando perché ha mischiato i temi della povertà e del lavoro e presenta delle iniquità».

Intanto in Italia le file si fanno più per entrare in un talent televisivo che per cercare un lavoro.
«In Italia si è persa un po’ l’etica della fatica e dell’impegno. Ma se si cercano le scorciatoie è perché nessuno sa più indicare la strada maestra. Serve un grande investimento su istruzione e formazione ma che sia mirato. C’è nuovo atlante delle figure professionali più richieste: partiamo da qui e rivediamo l’offerta dei corsi. Non serve che tutti facciano gli scienziati o i comunicatori».

E per chi ha un lavoro di cui non è più soddisfatto?
«Chi ha meno di 30 anni deve potersi riqualificare perché a 14 anni non si può scegliere il lavoro della vita. Il centro di formazione, la scuola, i sindacati, le camere di commercio dovrebbero costruire una linea di accompagnamento».

È giusto allungare la vita lavorativa?
«Si può fare, ma va rifondato un patto. Lo Stato deve dirmi quanti anni devo lavorare ma deve anche comunicarmi cosa fa dei miei soldi. Lo stesso per il Fisco. Una nostra campagna di qualche anno fa proponeva che il cittadino potesse decidere dove mettere una parte dei soldi del 730».

Cosa pensa della flat tax?
«Che già esiste sopra i 75 mila euro, dove l’aliquota è unica, così un dirigente che guadagna 70-80 mila euro è trattato come Cristiano Ronaldo. Un altro modo per uccidere la classe media. Preferiamo un fisco “sartoriale”, che si adatti alla condizione sociale dell’individuo. Cominciamo a riformare l’Irpef che risale al ‘74».

Le periferie soffrono. L’immigrazione fa paura.
«L’emergenza immigrazione non esiste. Aboliamo i decreti sicurezza e recuperiamo l’approccio umanitario. Ma diciamo pure che ci sono stati anche molti errori, come la fine degli Sprar che distribuivano in modo sostenibile gli immigrati consentendo l’integrazione. Papa Francesco ci chiede di impegnarci nelle periferie: quelle esistenziali e quelle urbane. Al nuovo governo chiediamo di ripartire da lì».


Articolo del 10 settembre 2019 pubblicato a pag. 9 dell’inserto BuoneNotizie del Corriere della Sera.

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