di Giovanna De Sensi Sestito*

Giovanna De Sensi Sestito

Per la stagione teatrale 2019, l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA) per trattare un tema importante come quello contro la guerra ha fatto una scelta tutta al femminile. Entrambe le  tragedie scelte sono di Euripide, il poeta che negli anni della maturità artistica ha vissuto e sofferto le alterne fasi della guerra del Peloponneso, senza vivere abbastanza per vederne l’amara conclusione per la sua patria.

LE TROIANE, rappresentata nel 415 a.C., rappresentano un appello accorato del poeta contro la guerra, in cui Atene si stava di nuovo cacciando con una baldanzosa spedizione in Sicilia contro Siracusa, dopo l’effimera pace di Nicia. I primi personaggi chiamati a proclamare l’inutilità e l’insensatezza della guerra sono due divinità che aprono la scena: Posidone si dichiara sconfitto per non essere riuscito a proteggere Troia, ma la vittoria è amara anche per Atena, che ha dato un aiuto decisivo ai Greci suggerendo l’inganno del cavallo di legno, ma li vuole ora punire per la profanazione del suo tempio nella città e cerca l’aiuto di Posidone per preparare ai vincitori un amaro ritorno in Grecia :«Folle chi rade al suolo le città // ed i templi e le tombe ne abbandona, // sacro asilo dei morti: presto o tardi // pagherà molto care le sue colpe». Più tardi sarà l’infelice Cassandra, la sacerdotessa di Apollo violata nella sua castità tra gli altari del dio e prescelta da Agamennone come sua concubina, a predire l’amaro ritorno dei greci e la sua vendetta che prenderà corpo nel destino di morte che attende Agamennone in patria.

Al centro della scena rimane per tutta la tragedia la vera protagonista, Ecuba, la vecchia regina impietrita dai troppi dolori che la opprimono, ma struggente nel ricordo dei fasti perduti del passato, del marito Priamo ucciso sotto i suoi occhi e lasciato insepolto, dei suoi cinquanta figli, a cominciare da Ettore, e al suo lamento si aggiunge presto quello del coro delle donne troiane, che si disperano per la morte violenta dei loro mariti e dei loro figli, per la perdita della patria che brucia sullo sfondo e per il destino di schiavitù che le attende.  E lì, sulla scena, Ecuba apprende dall’araldo nuovi dolori: della sorte della figlia più giovane, Polissena, sgozzata in sacrificio funebre sulla tomba di Achille; di Cassandra, destinata ad Agamennone e della nuora Andromaca pretesa da Neottolemo, figlio di Achille; della decisione presa dal consiglio dei greci di uccidere anche il piccolo Astianatte figlio di Ettore, per paura di una sua futura vendetta.

La dignità eroica di Ecuba prevale anche nel confronto dialogico con Elena, che trascinata davanti a Menelao si discolpa con parole di menzogna; sollecitata dal re spartano, Ecuba le smaschera ad una ad una rivolgendosi a Elena con parole durissime: vergogna di Castore e di Sparta, causa della morte di  Priamo, di tutti i suoi figli, rovina di Troia. Rafforza così lo sdegno di Menelao che promette di punirla con la morte per la guerra e i lutti che ha provocato ai Greci e per riaffermare la sacralità dell’ospitalità, tradita da Paride, e della fedeltà coniugale, tradita da Elena. A Ecuba, infine, tocca dare una  simbolica sepoltura al corpicino disfatto di Astianatte sotto lo scudo del padre. Tra le fiamme che divorano la città Ecuba vorrebbe cercare una morte pietosa e gloriosa, ma glielo impediscono i soldati trascinandola alle navi dei greci.

Percorre tutta la tragedia la condanna della guerra, causa di distruzione, morte e schiavitù per i vinti, ma causa di immensi lutti e presagio di sventure anche per i vincitori: niente sarà più come prima nè per gli uni nè per gli altri e con l’equilibrio sconvolto dalla guerra dovranno fare i conti gli stessi vincitori.


Con l’ELENA, rappresentata nel 412 a.C., il messaggio di Euripide contro la guerra è ancora più forte, anche se la tensione drammatica è minore e sfocia in un lieto fine. Il miraggio del facile successo in Sicilia s’era tramutato in una disfatta terribile e nella ripresa della guerra diretta con Sparta, che aveva occupato Decelea alle porte di Atene. Anche la democrazia ormai vacillava nella città, perché avevano preso il sopravvento gli oligarchici.  Di questo clima di drammatica sfiducia e incertezza è espressione questa tragedia che utilizza un filone razionalistico del mito di Elena, precocemente elaborato per riscattare da colpe così gravi la memoria di Elena, oggetto di culto a Sparta assieme ai divini fratelli, Castore e Polluce. Era stato un poeta arcaico della Magna Grecia, Stesicoro, vissuto tra Imera e Metauro a cavallo del VII e del VI secolo a.C., il primo ad aver composto una Palinodia in onore di Elena per poter recuperare la vista, che aveva perduto dopo aver poetato su di lei attribuendole le colpe della tradizione omerica: Elena non avrebbe mai tradito Menelao e sarebbe stata una falsa Elena quella rapita e portata a Troia da Paride. Il motivo della falsa Elana offriva ad Euripide una metafora potente per un attacco ancora più duro contro la guerra.


Nel prologo è Elena stessa, presso la tomba di Proteo, il re egiziano che l’ha accolta, a raccontare la propria storia a cominciare dal concepimento nel seno di Leda ad opera di Zeus sotto le sembianze di un cigno. È introdotto così il motivo conduttore della tragedia, che niente è come appare e c’è sempre una doppia verità in quello che viene detto. Dall’esule Teucro che irrompe sulla scena Elena apprende dell’odio dei greci nei suoi confronti, dei sette anni di peripezie e sciagure già affrontate dai greci nel ritorno infausto da Troia; della morte che per la vergogna del tradimento di Elena si erano dati la madre Leda e i fratelli Dioscuri; della probabile morte di Menelao in mare, assieme ad Elena che si trascinava dietro, e a stento riesce a convincere Teucro, per la nobiltà d’animo che dimostra, di essere lei la vera Elena, che non è mai andata a Troia con Paride, ma rapita e portata  in Egitto da Hermes, mentre Paride aveva portato con sé a Troia per la rovina della sua città solo una immagine di Elena fatta di aria, un dono avvelenato di Afrodite.

Vero e falso si intrecciano in questi racconti e il coro di schiave greche esorta Elena a non credere che fosse tutto vero e a consultare la figlia di Proteo, Teonoe, sacerdotessa e indovina veritiera. Il gioco tra falsa e vera Elena  si ripete quando arriva sulla scena, lacero e naufrago, Menelao, che ha lasciato la falsa Elena nascosta in una grotta e apprende da una vecchia che la spartana Elena è lì da prima che i greci partissero per Troia. E sulla scena Elena e Menelao s’incontrano e si riconoscono, mentre un compagno arriva a informarlo che l’Elena della grotta si è dissolta nell’etere. Le infinite pene dei greci e dei troiani, navi, eserciti, città distrutte, tutto sofferto invano:« O Frigi sventurati e voi tutti Achei, per tanto tempo siete andati alla morte vittime di un inganno»; un inganno ordito dagli dei, dirà Menelao, «e quello che alla fine ne avemmo nelle mani era un’immagine fatta con una nuvola, e fu causa di tanti lutti!… E non per una nuvola soffrimmo tanto e faticammo invano?». Seguono le considerazioni sull’instabilità della condizione umana, sulla mancanza di certezze, su quanto siano menzogneri gli indovini, a cominciare da Calcante e da Eleno che non avevano saputo suggerire niente di buono ai loro popoli. La considerazione del poeta è che non bisogna fidarsi di nessuno, occorre cervello e buon consiglio e stare radicati nella giustizia, come fa la sacerdotessa Teonoe, non disposta a compiacere il fratello che vorrebbe sposare Elena, a prezzo di un’infamia: «giustizia, perchè il cielo è comune a tutti gli uomini, come la terra, e nel cuore bisogna custodire il tempio della giustizia».

Rincara la dose il coro sentenziando: «nessun ingiusto mai ebbe fortuna finora al mondo, solo la giustizia può dare una speranza di salvezza», ed  esprimendo sfiducia negli dei e soprattutto negli uomini, che rimproverano così: «il senno tutti avete perduto / voi che i meriti con la guerra / con le lance nella battaglia / dei forti volete acquistare; / se il giudizio a questi meriti / lo deve dare la gara di sangue, / la contesa non lascerà mai le città e le case,/ e gli uomini per questa gara lasceranno / i talami in cambio della terra di Priamo / mentre potevano regolare con le parole la contesa che era sorta per te (rivolti a Elana). /  O Priamo, o Troia, la morte e la rovina vi hanno tolti dal mondo senza scopo».

È facile cogliere un riferimento immediato alla spedizione in Sicilia, sbandierata come  una guerra facile che avrebbe portato ricchezza e potere ancora più grande ad Atene, ma che si era rivelata una tragica illusione. Ma la tragedia suggerisce che in fondo ogni guerra è un’illusione, scoppia per pretesti irrisori, quando non del tutto menzogneri, rispetto alla massa di sciagure che provoca.

Da buon conservatore, anche Aristofane era contrario alla guerra, finita dopo la morte di Pericle sotto la direzione del demagogo Cleone, guerrafondaio per principio, dal poeta comico sbeffeggiato nei Babilonesi del 426 e nei Cavalieri del 424 a.C., e soprattutto era contrario ad una guerra contro Sparta, modello di buon governo vagheggiato da tutti i benpensanti come lui. Aristofane aveva già affrontato anche il tema della pace negli Acarnesi, del 425, e nella Pace, del 421 a.C. Nel drammatico contesto di reazione oligarchica che aveva preso il sopravvento in Atene nel 412 dopo l’esito disastroso della guerra in Sicilia, sfociato nel 411 in un colpo di stato oligarchico, che limitava i diritti civili ai soli cinquemila cittadini dotati di un certo reddito, Aristofane porta sulla scena la commedia LISISTRATA, costruita, si direbbe, proprio sviluppando le considerazioni finali del coro nell’Elena di Euripide rappresentata l’anno precedente, sulla insensatezza degli uomini che preferiscono abbandonare il proprio talamo e la propria città per andare a fare la guerra in terre lontane.  Parodiando Euripide per la sua predilezione per i soggetti femminili, Aristofane imbastisce la situazione paradossale di uno sciopero delle donne di tutta la  Grecia convinte dall’ateniese Lisistrata a rifiutarsi di ottemperare ai loro doveri coniugali fino a quando mariti e amanti non si fossero decisi a fare la pace. La vis comica del poeta accentua lo stereotipo della donna greca relegata in casa, frivola e lussuriosa, per far risaltare la forza della passione amorosa come unico possibile antidoto per distogliere gli uomini dalla loro insana passione di potere e di guerra.


Il tema della guerra percorre tutta la storia e purtroppo anche quella contemporanea. E se, grazie all’Unione europea, gli stati che ne fanno parte stanno sperimentando i benefici effetti della cooperazione e della ricerca di soluzioni democraticamente condivise per regolare i rapporti reciproci, non possiamo dire di vivere in un mondo di pace: nel recente passato, come in varie situazioni di crisi attuali, a scatenare conflitti a catena sono stati incidenti provocati ad arte, pretesi armamenti o presunte violazioni di qualche accordo, che hanno offerto pretesti menzogneri, funzionali solo a coprire corposi interessi di potere e di controllo di risorse essenziali per la ricchezza delle nazioni: pretesti illusori come l’immagine di Elena portata a Troia e causa di rovina di un’intera civiltà. Il vaso di Pandora una volta scoperchiato ha fatto dilagare nel nostro tempo odi razziali, guerre di religione, pulizie etniche, terrorismo, esodi biblici….

L’umanità ha bisogno di ritrovare se stessa, e la radice dell’umanità sta nelle donne.

*Professore ordinario di Storia greca e Storia della Magna Grecia presso l’UNICAL

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